In quanti modi si può raffigurare un’onda? Si può vedere di lato, alla
Hokusai, di fronte, alla
Monet, da dentro, alla
Aivazovsky. E poi?
Poi dipende da cosa significa quell’onda. Se è uno spettacolo
potente, se è un subbuglio che ribolle. Può essere da sola o con le
sorelle. Può essere ancora lontana dalla riva o arrivata a frangersi
sugli scogli. Ogni onda è un
racconto, che finisce là dove finisce il mare.
Ma non è un racconto antico. L’
onda,
come sola protagonista della scena, non appare prima del Romanticismo,
all’inizio dell’Ottocento. Perché è in quel momento che l’uomo comincia a
sentire profondamente le
forze della natura. Fino ad
allora si era illuso di poter controllare il mondo e piegarlo a sua
immagine e somiglianza (illusione che abbiamo ancora e di cui paghiamo
le conseguenze) e relegava il mare a sfondo delle sue azioni.
C’è giusto qualche sorprendente anticipo come
Marco Ricci,
che in piena età barocca dipinge alcune barche tra i flutti. Ma,
appunto, ci sono le barche. L’onda è funzionale alla dimostrazione
dell’eroismo dei pescatori.
Per altro le barche nella tempesta le aveva fatte già
Pieter Bruegel il Vecchio nel 1569.
Credo che le prime onde sole, senza imbarcazioni, siano dovute al solito
William Turner, un anticipatore di tutto l’anticipabile. Dai primi anni dell’Ottocento si dedica alle onde per oltre quarant’anni.
Le dipinge ad olio e ad acquerello, con pochi tratti, con trasparenze, con l’acqua nebulizzata dagli schizzi. Talmente
eterei e sintetici che se non avessero il titolo li scambieresti per
quadri astratti.
Certo la presenza di una nave dà la misura dell’onda. Senza le barchette dei pescatori come potremmo dire quant’è alta la
Grande Onda di
Hokusai?
Messa
accanto a Turner è di una distanza impressionante. Eppure è degli
stessi anni (era una delle 36 vedute del monte Fuji realizzate tra il
1826 e il 1833) ed è enormemente più famosa. Perché, come ho scritto a
proposito delle
icone, ha una struttura semplice, riconoscibile e colori squillanti.
Qualcuno ci ha trovato dentro anche la struttura della
spirale aurea
(e in effetti molte linee coincidono in modo sorprendente), ma non sono
sicura che quella proporzione appartenga anche alle culture artistiche
orientali.
Di sicuro quello stile resta inimitabile. Un’onda così grafica,
che sembra anticipare di settant’anni l’Art Nouveau, si ritroverà poche
volte. Forse in
Gauguin, che dalle stampe giapponesi prendeva ispirazione.
E poi in Christopher Richard Wynne
Nevinson, con le sue onde che sembrano pettinate o spalmate col coltello.
E poi nell’immancabile
Escher.
Ma torniamo indietro e andiamo in ordine.
Dopo Turner è il turno di
Gustave Courbet. Proprio lui, quello dell’
Origine del mondo. Oltre
a spaccapietre e fanciulle addormentate era un vero appassionato di
marine. E all’onda ha dedicato più di un dipinto. Questa ve l’ho fatta
vedere durante la mia passeggiata allo
Staedel Museum di Francoforte.
Ma negli stessi anni ne fa tante altre, per lo più con la
stessa impostazione. Si direbbe un romanticista tardivo. Per lui le onde
sono gonfie e pesanti, torbide, cupe.
Nel frattempo in Norvegia
Peder Balke realizza
alcuni dipinti sorprendenti. L’onda è fatta da una sola larga
pennellata. Il colore, unico per tutto il dipinto, è acqua e notte.
Sembra di stare sul bordo di un
maelstrom, il vortice che risucchia navi e persone. Potrebbero illustrare perfettamente il racconto di
Edgar Allan Poe, a maggior ragione che c’è pure una minuscola vela.
A proposito di illustrazioni, nel 1866 uscivano quelle di
Gustave Dorè per La
Ballata del vecchio Marinaio
di Coleridge. Quella con la nave dentro la tempesta è un potente
ribollir di onde che viene quasi il mal di mare se la guardi troppo a
lungo! (cliccate sull’immagine per vederla meglio)
Qualche anno dopo, un altro mare gonfio di cavalloni è al centro di un dipinto di
John Singer Sargent. Sono onde oceaniche, alte, vigorose. Attraversarle mette un’inquietudine continua.
Ma siamo già in pieno Impressionismo. Adesso il mare non spaventa più. Quello di
Renoir è tutto scrosci e schiuma.
Per non parlare delle onde di
Monet: dei
riccioletti luminosi sotto un cielo sereno. D’altra parte
l’Impressionismo era soprattutto questo: cogliere armonie di luce e
colore.
Poi è la volta del Pointillisme. Ma la certosina tecnica
puntinista non è certo la più adatta a raffigurare raffiche e marosi.
Quelle di
Maximilien Luce, infatti, sono delle lente ondulazioni che accarezzano la spiaggia.
La sequenza di onde in prospettiva è una novità interessante. Negli stessi anni la ripropone anche il russo
Efim Volkov…
… e poi anche
Munch, con esiti tutt’altro che rasserenanti.
Per
van Gogh, invece, le onde sono quasi
frontali e sempre accompagnate da barche a vela. Evidentemente il mare
da solo non era nelle sue corde. D’altra parte la sua onda più bella non
è fatta d’acqua ma è quella creata con pennellate di blu nel cielo
della notte stellata…
E poi c’è lui, il maestro dell’acqua traslucente. Un iperrealista ante litteram. Quello che ti lascia con la bocca aperta.
Ivan Aivazovsky.
Tanto virtuosismo. Confesso che non ci impazzisco. Così come
non amo quei contemporanei che impazzano sul web facendo anche loro onde
e schiume fotografiche.
A me piace l’arte che sublima la realtà. La ricrea col suo
linguaggio. Se devo vedere un mare identico al mare… beh me ne vado in
spiaggia e mi godo quello vero!
Per fortuna c’è
Winslow Homer che le onde le sa evocare bene. Lo schiaffo dell’acqua sugli scogli te lo fa sentire addosso con poche pennellate.
E poi
George Bellow con delle onde che sembrano dense mentre il colore smeraldo aggiunge al tutto un tono glaciale.
Le onde di
Sorolla, invece, sono più soffici. Ma quando si arrabbiano è meglio guardarle da lontano, o solcarle in barca a vela.
Negli stessi anni – siamo ai primi del Novecento – le onde assumono sembianze anche molto diverse. Con l’
Art Nouveau diventano pura linea, col suo tipico andamento sinuoso.
Con
Georgia O’Keeffe diventano semplice essenza cromatica. Silenziose e spettrali.
Intanto
Georges Lacombe introduce dei colori nuovi, com’è tipico dei simbolisti.
E prepara la strada alle onde più espressioniste della storia dell’arte. Quelle di
Emil Nolde. Che più che onde sono allucinazioni allo stato liquido…
Ma torniamo per un attimo al Giappone con la fotografia. Quella di
Kentaro Nakamura
del 1927, ferma un’onda che attraversa l’immagine in diagonale e pare
disegnata linea per linea con un’eleganza tutta orientale.
Sembrerebbe aver ispirato la splendida serie di scatti di
David Orias.
D’altra parte la
fotografia, con le onde, si è
sbizzarrita. In pochi decenni ne ha mostrato ogni aspetto esplorato in
passato dai pittori: la potenza, la geometria, il ritmo, la dimensione.
Eppure c’è chi continua a dipingerle.
Gerard Richter,
autore di opere astratte-astratte, ha dedicato negli anni Sessanta
molte tele alle onde marine. Buie, notturne, a volte con l’acqua al
posto del cielo. Ti dicono che da un momento all’altro succederà
qualcosa.
Ultime, e più grafiche, sono le onde di
Shepard Fairey,
l’artista del famoso ritratto di Obama in rosso e blu. Echi di Hokusai e
di Escher, forse. Ma anche molto pop, tanto da finire pure sui muri
della città di Jersey City.
Segni, curve, due soli colori. Tutte molto
astratte.
Come erano astratte quelle di Turner. Ma forse è l’onda in sé che è
qualcosa di astratto. Perché è una forma imprevedibile, casuale. È la
forma che una massa liquida assume nell’aria. E ci stupisce perché sfida
le nostre esperienze: sappiamo tutti che i liquidi non hanno forma, ma
assumono quella del loro contenitore.
Allora è per questo che le onde continuano ad incantarci come
bambini: hanno la forma dell’impossibile e la bellezza dell’immaginario.